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martedì 7 dicembre 2010

L'accordo

di Giorgio Bongiovanni e Anna Petrozzi - 7 dicembre 2010Un inquietante negoziato sul 41bis irrompe nel panorama delle indagini sui moventi e sui mandanti esterni delle stragi del 1993. Già il pm Gabriele Chelazzi aveva seguito questa pista che però non è stata mai ripresa. Il ministro della giustizia Giovanni Conso rivela che nelle alte sfere della prima repubblica già si conoscevano le intenzioni conciliatorie di Provenzano, il vero stratega della Cosa Nostra vincente, l’ideatore della mafia invisibile...
...che, senza indugi, indicava ai suoi fedelissimi i nuovi referenti della pax mafiosa: votate Forza Italia.

Una trattativa, due, tre, quattro…, una dentro l’altra, una parallela all’altra, una che nasconde l’altra...
Più passano gli anni e più i fatti e le testimonianze dimostrano, ormai senza ulteriore dubbio, che il rapporto tra mafia e stato è basato sul reciproco dialogo. Da sempre. Possiamo pretendere di scollegare gli eventi della storia e far finta di non vedere il ripetersi degli stessi schemi, del ricorso da parte del potere alla violenza offerta da Cosa Nostra a partire da Portella della Ginestra e il patto continuamente rinegoziato a seconda della contingenza del momento, così come ci insegna la sentenza Andreotti. Fino agli anni Ottanta, anzi almeno fino al 1989, quando i rapporti nel mondo cambiano e anche il do ut des tra mafia e stato si adegua al nuovo ordine internazionale.
Nel momento in cui Giovanni Falcone, scampato al drammatico attentato all’Addaura, il 20 giugno 1989, spiega al giornalista e amico Francesco La Licata che c’è stata “la saldatura di interessi” ha inizio il conto alla rovescia per la cosiddetta prima repubblica. Non scende nei dettagli il giudice, non indica pubblicamente le sue intuizioni, ma quando il 12 marzo 1992 Riina fa ammazzare Salvo Lima, il “traditore”, Falcone lascerà a chi lo ascolta due indizi che ancora oggi potrebbero essere fondamentali.
Alla collaboratrice Liliana Ferraro in viaggio negli Stati Uniti chiede di rientrare immediatamente perché: “Adesso può succedere di tutto”. E ai colleghi con cui sta ragionando ad alta voce dice: “Non si uccide una gallina dalla uova d’oro se non ce ne è un’altra pronta a farne di più”.
Da un solo evento Falcone capisce che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno e persino il movente: un nuovo referente, un nuovo interlocutore per ristabilire quei patti, spezzati ormai con una classe politica comunque in declino, con qualcun altro in grado di far tornare Cosa Nostra  ai tempi del grande guadagno e del controllo assoluto e silenzioso del territorio.
La miccia della strategia stragista scatta il 30 gennaio 1992, il giorno in cui la Cassazione conferma gli ergastoli per il gotha mafioso condannato nel maxi processo. Ad innescarla è stato ancora una volta Giovanni Falcone che spinge l’allora ministro della giustizia Claudio Martelli a firmare il decreto per la rotazione dei magistrati della Suprema Corte, sfilando così la sentenza finale dalla longa manus del giudice Corrado Carnevale.
L’atto formale porta il nome di Martelli, considerato dai mafiosi un “crasto”, un cornuto, un altro traditore, ma tutti sanno che la mente è lui, Giovanni Falcone, il nemico numero uno, adesso esposto più che mai.
Il giudice si è già fatto i suoi calcoli, probabilmente ne ha parlato anche con Borsellino. Ma non sono i soli a voler leggere nel futuro.
Mentre sta per dispiegarsi l’offensiva allo Stato, che terminerà definitivamente due anni dopo con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, si muovono contemporaneamente più trattative. Le più chiare sono quelle che ci racconta Cosa Nostra. Una viene intrapresa personalmente da Giovanni Brusca tramite Nino Gioé, suo uomo, il quale, avvicinato da un ambiguo personaggio, contiguo ad ambienti dei servizi segreti, tale Paolo Bellini, cerca di scambiare opere d’arte in cambio di un trattamento carcerario di favore per il vecchio Bernardo Brusca e di altri “pezzi da novanta” della cupola mafiosa. La seconda è quella che appare come la principale: Totò Riina parla “con persone importanti” per cercare nuovi referenti e apre i dialoghi con l’omicidio Lima, pianificato appositamente in quella data per inviare un chiaro segnale a Giulio Andreotti che infatti, seppure sia il più quotato candidato alla Presidenza della Repubblica, è costretto a lasciare il passo e a rinunciare all’ambizione di una vita.
Lima non è che il primo, ci dicono le gole profonde di Cosa Nostra. Riina ha inserito nella lista nera altri politici tra cui Calogero Mannino, Vincenzo Purpura, Nino e Ignazio Salvo. Ma prima di procedere alla resa dei conti, alza la posta, per dare dimostrazione della sua potenza e della serietà delle sue intenzioni: uccide Falcone con il terrificante spettacolo di Capaci.
Dopodiché attende, ma non molto tempo perché, rivela a Brusca poco dopo,: “Si sono fatti sotto”.
Anni di ricostruzioni giudiziarie ci dicono che a farsi sotto sono i carabinieri nelle persone del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno i quali, attraverso Vito Ciancimino, cercano un canale di comunicazione con Riina e lo trovano.
A questo punto il capo di Cosa Nostra, confortato dell’efficacia del proprio piano, avanza le sue richieste e spara alto. Questa volta il patto di coabitazione deve garantire l’immunità da personaggi come Falcone e Borsellino, carcere ragionevole e soprattutto azzerare il danno pentiti.
Le richieste, racconta Massimo Ciancimino, testimone diretto di quel dialogo, sono “esose” e irricevibili, come del resto aveva già spiegato Brusca. E mentre Provenzano prega don Vito di elaborare una soluzione alternativa, Riina non aspetta e va in scena il secondo atto eversivo: la strage di Via D’Amelio.
Oggi sappiamo che Paolo Borsellino era a conoscenza di questo dialogo ma nessuno dei tanti testimoni tardivi di quei tempi ci parla della sua reazione. Solo sua moglie, Agnese Borsellino, racconta che il marito era disgustato, profondamente turbato da quanto andava apprendendo mentre lottava per strappare ogni giorno alla morte.
Il prossimo in ordine di eliminazione nella lista nera del capo di Cosa Nostra sarebbe dovuto essere Calogero Mannino, altro uomo forte della Democrazia Cristiana, per anni sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa e poi definitivamente assolto dalla Cassazione.
Però accade qualcosa che induce Riina a cambiare le sue priorità. Senza spiegazione ordina a Giovanni Brusca di interrompere i preparativi per l’omicidio del politico perché era in corso un altro “lavoro”.
Con un’accelerazione improvvisa rispetto alle scadenze prestabilite Riina decide di “fare il fatto di Borsellino”. E’ poco il tempo, ma nella fase cruciale dell’esecuzione non ci sarà bisogno di provare e riprovare il piano come era stato per Falcone, sul posto, a fianco dei mafiosi, ci saranno professionisti, gente abituata a operazioni rapide e pulite. Gente altrettanto veloce a far sparire l’agenda rossa dalla macchina del giudice ancora fumante, gente preparata ad indirizzare le indagini nei bassifondi della Guadagna dove si può allestire la ricostruzione più incredibile e farla reggere a tre gradi di giudizio. Uomini di stato, ci dicono oggi le indagini, ma uomini infedeli? Sicuramente infedeli allo Stato che Paolo Borsellino impersonava, sicuramente fedeli a quello stato che li ha incaricati di togliere di mezzo l’ostacolo alla trattativa. Don Vito lo capisce subito. E lo mette per iscritto con una sorta di assunzione di responsabilità.
A questo punto avviene un cambio di strategia. Provenzano e Ciancimino si accordano per offrire sul piatto d’argento una contropartita che potrebbe consentire allo stato di riprendere il fiato e un po’ di credibilità: la consegna di Riina. Secondo quanto raccontato da Massimo Ciancimino la cattura del boss, il 15 gennaio 1993, annunciata in pompa magna dall’allora ministro Mancino, è proprio frutto del tradimento della triplice alleanza corleonese.
Se per Ciancimino il vantaggio potrebbe essere soprattutto personale è chiaro che Provenzano si aspetti in cambio molto di più. Contrariamente a Riina è uomo paziente, di grande lungimiranza e con indubbie doti tattiche che gli consentono di giocare su più tavoli. Contemporaneamente.

“La trattativa ha salvato la vita a molti politici”

Questa dichiarazione rilasciata al quotidiano La Stampa il 18 ottobre 2009 dal procuratore antimafia Piero Grasso potrebbe fornire un’interpretazione inedita di questi fatti se letta nella prospettiva delle inquietanti novità emerse nelle scorse settimane durante le sessioni della Commissione parlamentare antimafia.
A distanza di quasi 18 anni si è infatti appreso che il 12 febbraio 1993 durante una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza si accende un vivo dibattito sulla questione del 41bis. La norma che regola l’inasprimento della detenzione carceraria ha carattere speciale di emergenzialità e viene prorogata di volta in volta. Ad applicarla ai mafiosi è stato il ministro Martelli dopo la strage di via D’Amelio, ma a quanto pare non sono in molti a condividerne l’utilità benché sia evidente l’efficacia di questo strumento per isolare i boss dal mondo esterno e soprattutto per indurne altri alla resa e quindi alla collaborazione con la giustizia.
Di questo contrasto interno che i protagonisti insistono nel definire di natura metodologica e giurisprudenziale si apprende in una nota, datata 6 marzo 1993, inviata dall’allora capo del Dap Nicolò Amato al ministro della giustizia, Giovanni Conso (subentrato a Martelli nel frattempo indagato per lo scandalo del conto Protezione). Vi si legge: “Sono state espresse dal capo della polizia (Vincenzo Parisi, deceduto 16 anni fa) riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente da parte del Ministero dell’Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”. All’epoca il ministro degli interni è Nicola Mancino e i due istituti di pena sono campani, regione d’origine del politico, che tuttavia ha già affermato in Commissione la sua totale convinzione per la linea della fermezza. Forse qualcuno al Ministero parlava per suo conto ma a sua insaputa.
Pressioni o meno il 15 maggio, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo, in via Fauro, a Roma, non viene prorogato il 41bis per 140 detenuti. Se Cosa Nostra avesse inteso questo gesto come una risposta positiva alle sue istanze si potrebbe assegnare un ulteriore significato alla bomba di Firenze in cui morirono cinque persone innocenti e furono inferti danni ingenti all’Accademia dei Georgofili il 27 maggio immediatamente successivo. Però i primi giorni di luglio altri 325 “41 bis” vengono rinnovati e a fine mese, il 27,28 luglio esplodono altri ordigni a Milano e Roma con altri morti, altri feriti e altri danni al patrimonio.
Poi silenzio. I primi di novembre altri 340 “41bis” non vengono prorogati. E potrebbe anche dirsi che tutto questo alternarsi tra provvedimenti e bombe così contraddittorio e illogico sia casuale, o per coincidenza, se l’ex ministro Conso non avesse spiegato ai commissari, ma anche ai magistrati di Palermo che l’hanno voluto sentire subito, che i 140 decreti non prorogati a novembre di cui si ricorda (quindi ne rammenta solo una parte, gli altri 200 sono stati rintracciati dagli inquirenti) erano frutto di una sua scelta autonoma e personale con la finalità “di frenare la minaccia di altre stragi”.
“C’era già stato l’arresto di Riina – ha aggiunto l’anziano professore – e si parlava di un cambio di passo della mafia con il nuovo capo Provenzano che aveva un’altra visione: puntare sull’aspetto economico ed abbandonare le stragi. Ecco perché decisi di lasciar stare un atto che non era obbligatorio. E difatti di stragi non ce ne sono più state”.
Dichiarazioni bomba queste rilasciate da Conso, forse inconsapevolmente, poiché la teoria delle due Cosa Nostra e delle divergenze tra Riina e Provenzano risalgono a molto dopo quel periodo,  a meno che Conso e gli altri protagonisti di questa vicenda non fossero al corrente di quanto il nuovo boss della mafia stava pianificando con l’aiuto iniziale di Vito Ciancimino: vendere il capo sanguinario e dare inizio al processo di indebolimento della frangia estremista di Cosa Nostra (come in effetti avverrà) per poter così tornare alla coabitazione, agli affari, all’equilibrio delle parti. Sarebbe vero in questo caso quanto dichiarato da Massimo Ciancimino circa l’esistenza di una sponda istituzionale dietro i carabinieri quale terminale ultimo dei dialoghi.
Altrimenti non si spiegherebbe perché Conso possa aver fatto un tale ragionamento dato che all’epoca si sospettava che Bernardo Provenzano fosse addirittura morto poiché l’anno precedente, proprio prima dello scoppiare della guerra allo Stato, aveva fatto rientrare a Corleone la famiglia vissuta da sempre in latitanza. Era stato Salvatore Cancemi, consegnandosi ai carabinieri il 22 luglio del 1993, a sostenere invece che Provenzano era vivo e ad indicare il luogo dell’appuntamento che aveva con lui quel mattino, ma nell’immediato non fu infatti creduto. (E’ la prima delle mancate catture di Provenzano).
Troppo poco tempo quindi per elaborare un’analisi delle nuove dinamiche interne a Cosa Nostra anche perché, in realtà, per almeno tutto il 1993 e in parte anche successivamente, il vertice dell’organizzazione è spartito tra Provenzano da una parte, Bagarella, Brusca e i fratelli Graviano dall’altra. Tutti stragisti con cui il vecchio padrino concorda di compiere altre stragi, ma non in Sicilia, nel continente. Non va dimenticato infatti che la decisione di attaccare il patrimonio artistico viene maturata dalla cupola di Cosa Nostra nell’estate del ’92 a Mazara del Vallo con Riina ancora in libertà e dietro il suggerimento nemmeno tanto velato di Bellini, mediatore di quel primo mercanteggiare tra opere d’arte e benefici carcerari.
E’ Bellini infatti che insuffla nelle orecchie tese di Cosa Nostra un concetto molto semplice: “Un magistrato lo puoi sempre sostituire, un monumento no”.
Quindi seppur di strategica importanza per i dialoghi fra mafia e stato, appare alquanto riduttivo vincolare in maniera univoca le stragi del continente alla questione del 41bis. Cosa Nostra, ancora prima della cattura di Riina, sta pianificando attentati terroristici di grande clamore, con propositi eversivi e destabilizzatori. (Si ricordi la folle idea di cospargere le spiagge di Rimini di siringhe infette). Lo scopo ultimo della strategia stragista di Riina è “disarcionare dalla sella il vecchio” per far posto al nuovo. E non cambia nemmeno quando il capo viene arrestato. Cancemi racconta che non vi sono dubbi dietro le quinte, per nessuno dei capi mafia: “Si va avanti così come aveva detto lo zio Totuccio”.
E quindi via Fauro e poi Firenze, poi Milano, poi Roma. E nemmeno dopo la revoca dei 340 “41bis” si ferma la furia omicida di Cosa Nostra. Giuseppe Graviano spiega ad uno Spatuzza turbato dall’omicidio di innocenti come la piccola Caterina Nencioni, 50 giorni, che è una questione politica. Occorre fare un ultimo atto di forza per avere il Paese nelle mani.
Il 23 gennaio 1994 è domenica. Allo stadio Olimpico si gioca Roma-Udinese. L’obiettivo questa volta sono i carabinieri, tanti carabinieri. Spatuzza ha imbottito di tritolo una Lancia Thema e “per fare ancora più danno” l’ha riempito di tondini di ferro.
Per la pietà di Dio però il detonatore non innesca l’ordigno. Nessuno morirà.
Quattro giorni dopo, il 27 gennaio 1994, i registi di questo atto finale di megalomania omicida, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati, a Milano.
Il 31 gennaio vengono rinnovati i “41 bis” ad un altro corposo gruppo di detenuti. A tal proposito Conso spiega ancora: “Può apparire contraddittorio ma si trattava di capi: Fidanzati, Calò e tanti altri. C’era lo stesso rapporto che c’è tra i ricchi e poveri”.
Nonostante si tratti di “pezzi grossi” la strategia stragista si interrompe definitivamente. L’attentato all’Olimpico non si ripete. Inizia l’era Provenzano, proprio quella evocata da Conso, della pax mafiosa e degli affari.
La prima repubblica cade definitivamente da cavallo e in sella sale la seconda, il nuovo.
Secondo quanto Vito Ciancimino racconta al figlio Massimo, è Dell’Utri il traghettatore, il mediatore, il burattinaio, assieme a Provenzano, del rinnovato patto tra Stato e mafia.
Convergono in questo senso anche le testimonianze di Salvatore Cancemi e Antonino Giuffré.
Quest’ultimo riferisce che il nuovo capo di Cosa Nostra, contravvenendo al suo abituale e cautelativo riserbo, non aveva temuto di esporsi personalmente nell’indicare a tutti gli uomini d’onore il nuovo partito di riferimento: Forza Italia.
In cambio di un regno di oltre un quindicennio quasi indisturbato, accuratamente protetto da qualsiasi tentativo di cattura, Provenzano agevola gli arresti di tutta l’ala oltranzista che piano piano, progressivamente, esce di scena.
“C’era una divinità che dovevano essere offerti dei sacrifici umani”, sintetizza con efficace metafora Giuffré e indica nel “sacrificio più grande” il tradimento di Riina, concepibile soltanto però per un fine più grande: Cosa Nuova.
Per quante e plausibili trattative si siano accavallate tra il gennaio del 1992 e quello del 1994 è evidente che rientrano tutte in un unico progetto di “gioco grande” in cui Cosa Nostra ha prestato il suo know-how della violenza, come dal 1943 in poi, affinché si instaurasse in Italia un regime in linea con il nuovo ordine globale.
Dopo vent’anni, sull’orlo del fallimento totale del liberalismo capitalista, tremano anche le fittizie fondamenta della seconda repubblica. Il futuro che si affaccia non lascia presagire nulla di buono e in ogni caso c’è da sperare che non irrompa, ancora una volta, con la violenza, terrorista o della mafia dell’ancor latitante Matteo Messina Denaro, probabile erede dei segreti e dei metodi corleonesi.

ANTIMAFIADuemila N°66


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