Il documento è stato inserito nel fascicolo dell'inchiesta Meta, che ha aperto uno squarcio sugli aspetti criminali delle cosche reggine
“Sarò odiato e condannato a morte da molta gente che anche per mia colpa andrà a finire in prigione, ma forse un giorno potranno capire che è meglio in prigione che sottoterra”.
Inizia così il memoriale consegnato il 30 gennaio 2009 al sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo dal collaboratore di giustizia Nino Fiume, un tempo killer della cosca De Stefano. Un memoriale che ora è stato inserito nel fascicolo dell’inchiesta Meta, che ha aperto uno squarcio sugli aspetti criminali delle cosche reggine. E su come gli accordi tra le famiglie mafiose si sono modificati rispetto alla pax del 1991.
Ventotto pagine scritte a mano in cui il pentito degli “arcoti”, protagonisti della seconda guerra di mafia, fa i nomi e i cognomi della “Reggio bene” . Giovani che “io frequentavo di rado – scrive la gola profonda – ma con tutti ho sempre mantenuto l’educazione, il rispetto del saluto, dell’abbraccio e del bacio”.
Avvocati, professionisti, i “bravi ragazzi” che, per anni, hanno frequentato i boss Carmine e Giuseppe De Stefano.
Quest’ultimo è diventato “capo crimine” di Reggio Calabria da oltre 10 anni, il mammasantissima di quella che il gip Filippo Leonardo ha definito, nell’ordinanza dell’inchiesta “Meta”, una “super associazione”.
Tre anime e un solo braccio riconosciuto, appunto, in Giuseppe De Stefano che ricopriva «il ruolo di vertice operativo nella gestione delle azioni estorsive e delittuose in genere e dei proventi che ne derivano, per aver ricevuto, con l’accordo di tutti i capi locali, il grado di “Crimine”».
Forte della posizione di vertice a lui universalmente riconosciuta all’interno della ‘ndrangheta calabrese, Pasquale Condello aveva «il ruolo di condirezione e coordinamento nell’azione di comando svolta da Giuseppe De Stefano, con il quale divide in parti eguali i relativi profitti illeciti, avvalendosi sul piano operativo dei propri cugini e tra loro fratelli Condello Domenico, detto “Gingomma”, e Condello Demetrio”.
Nella super associazione, infine, Pasquale Libri (che ha ereditato il bastone del comando dal fratello defunto, il carismatico boss don Mico), ha un “ruolo altrettanto direttivo di custode e garante delle regole che il germano aveva scritto nel 1991 al termine della seconda guerra di mafia, assistito in tale azione dal genero Chirico Filippo”.
I tre boss, scrive il gip Leonardo, “sono consapevoli che anche la ‘ndrangheta, come tutte le vicende umane, ha la necessità di evolversi per resistere alle lotte interne ed all’attività repressiva posta in essere dalle istituzioni dello Stato; sanno che la ‘ndrangheta vive del consenso dei soggetti che di quel mondo criminale fanno parte o che di quel mondo sono al servizio per esserne la consapevole, e quindi colpevole, cintura di protezione; così come sanno di poter contare sulla rassegnata acquiescenza di gran parte di una comunità soggiogata allo strapotere mafioso. I capi sanno che la ‘ndrangheta non può diventare un’entità astratta per continuare a prosperare, ma deve ancorarsi ad un volto che sia al passo con i tempi e che si faccia carico di un ruolo riconoscibile e raggiungibile attraverso passaggi e contatti non oscuri, a cui rivolgere domande e da cui ottenere risposte. Chi meglio del figlio di Paolo De Stefano può incarnare il volto della ‘ndrangheta reggina, garantito, da una parte, dall’appoggio di un alleato storico quale Pasquale Libri che ha la statura per svolgere il medesimo ruolo del fratello e garantire il legame con un passato di pace a tutti gradito e, dall’altra, dall’approvazione di Pasquale Condello, “il Supremo”, simbolo di una forza militare dirompente che serve a fornire autorevolezza all’organo di vertice, ma serve soprattutto a comunicare alla società civile ed ai soggetti imprenditoriali un messaggio essenziale: la stagione delle guerre è finita, la ‘ndrangheta tende ad essere unita ed a rafforzarsi all’interno e verso l’esterno pretendendo la sua parte in ogni attività economica”.
Alla luce dell’analisi del gip, il memoriale del pentito Nino Fiume diventa importantissimo per la Procura distrettuale per dimostrare i cambiamenti della ‘ndrangheta reggina.
“Chi è Giuseppe De Stefano, qual è il suo potere” è il titolo dato al suo memoriale dal collaboratore all’indomani della cattura del pericoloso latitante nel dicembre del 2008 quando Fiume ha appreso la notizia dalla tv: “Era sereno e con la mano mandava baci a qualcuno, inoltre al tg è stata detta questa frase: “Esponente facente parte dell’elite della ‘ndrangheta”. Mi ha fatto pensare a tante cose, a come avrebbe reagito l’opinione pubblica reggina, specie quella che ha conosciuto Giuseppe De Stefano sotto altri aspetti”.
Il pentito descrive, in quelle 28 pagine, come è iniziata la sua storia criminale. Una storia che gli ha consentito di vivere la famiglia mafiosa dei De Stefano dal di dentro. Nino Fiume, infatti, era il fidanzato della sorella del boss. “Mi sono avvicinato ancor di più ai fratelli Carmine e Giuseppe De Stefano dopo la morte del padre (e cioè nel 1985) e per più di un mese ho dormito a casa loro, ma a quei tempi non ero solo io a frequentare quella casa, c’erano tanti giovani della Reggio – Bene, giovani che poi hanno preso altre vie, altre strade, chi è andato a vivere all’Estero, chi si è laureato e ha cambiato città, chi pian piano, giorno per giorno, si allontanò senza più farsi rivedere se non alla fine della guerra di mafia. Io invece rimasi lì nonostante mi trovassi in difficoltà per cercare di mantenere l’amicizia (e buoni rapporti) con molti giovani su citati che pian piano si allontanarono all’inizio della guerra, tranne qualcuno e anche se c’era una differenza di età fra me e i fratelli Carmine e Giuseppe De Stefano, in altri tempi frequentavamo le stesse comitive fra le vecchie e le nuove generazioni”.
E qui Fiume fa i nomi e i cognomi della Reggio-bene distinguendo le vecchie dalle nuove generazioni, i ragazzi dalle ragazze delle comitive. I pm annotano e vanno avanti. Durante la guerra di mafia, quei giovani “rischiavano di morire in quanto si era innescato (o meglio si stava innescando) un meccanismo di fare cerchio nuovo, cioè di fare terra bruciata attorno alle persone che erano a conoscenza di cose che compromettevano l’incolumità e la reggenza di una cosca”.
Il collaboratore ha stilato una minuziosa lista di persone che erano state scritte nel “libro nero” dei De Stefano. Persone che dovevano essere eliminate o fatte sparire perché colpevoli di uno “sgarro”, o semplicemente perché su di loro i fratelli De Stefano nutrivano forti sospetti. Tra questi, stando sempre al racconto di Fiume, c’erano anche poliziotti, guardie penitenziarie e giovani di Reggio che frequentavano lo stesso gruppo De Stefano.
Brutte storie sulle quali indaga la Procura Distrettuale di Reggio. “Storie tristi e orripilanti” le definisce Nino Fiume che, dopo aver descritto le tensioni tra i fratelli Giuseppe e Carmine De Stefano e lo zio Orazio, conclude il suo memoriale con una riflessione: “i fatti reali sono sempre più grossi di quelli raccontati e alcuni ‘ndranghetisti citati in questi appunti a volte restano troppo inferiori rispetto ai nuovi ‘ndranghetisti che via via si formano, nel mentre che si lotta per riuscire a bloccare la loro formazione”.
di Lucio Musolino
Inizia così il memoriale consegnato il 30 gennaio 2009 al sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo dal collaboratore di giustizia Nino Fiume, un tempo killer della cosca De Stefano. Un memoriale che ora è stato inserito nel fascicolo dell’inchiesta Meta, che ha aperto uno squarcio sugli aspetti criminali delle cosche reggine. E su come gli accordi tra le famiglie mafiose si sono modificati rispetto alla pax del 1991.
Ventotto pagine scritte a mano in cui il pentito degli “arcoti”, protagonisti della seconda guerra di mafia, fa i nomi e i cognomi della “Reggio bene” . Giovani che “io frequentavo di rado – scrive la gola profonda – ma con tutti ho sempre mantenuto l’educazione, il rispetto del saluto, dell’abbraccio e del bacio”.
Avvocati, professionisti, i “bravi ragazzi” che, per anni, hanno frequentato i boss Carmine e Giuseppe De Stefano.
Quest’ultimo è diventato “capo crimine” di Reggio Calabria da oltre 10 anni, il mammasantissima di quella che il gip Filippo Leonardo ha definito, nell’ordinanza dell’inchiesta “Meta”, una “super associazione”.
Tre anime e un solo braccio riconosciuto, appunto, in Giuseppe De Stefano che ricopriva «il ruolo di vertice operativo nella gestione delle azioni estorsive e delittuose in genere e dei proventi che ne derivano, per aver ricevuto, con l’accordo di tutti i capi locali, il grado di “Crimine”».
Forte della posizione di vertice a lui universalmente riconosciuta all’interno della ‘ndrangheta calabrese, Pasquale Condello aveva «il ruolo di condirezione e coordinamento nell’azione di comando svolta da Giuseppe De Stefano, con il quale divide in parti eguali i relativi profitti illeciti, avvalendosi sul piano operativo dei propri cugini e tra loro fratelli Condello Domenico, detto “Gingomma”, e Condello Demetrio”.
Nella super associazione, infine, Pasquale Libri (che ha ereditato il bastone del comando dal fratello defunto, il carismatico boss don Mico), ha un “ruolo altrettanto direttivo di custode e garante delle regole che il germano aveva scritto nel 1991 al termine della seconda guerra di mafia, assistito in tale azione dal genero Chirico Filippo”.
I tre boss, scrive il gip Leonardo, “sono consapevoli che anche la ‘ndrangheta, come tutte le vicende umane, ha la necessità di evolversi per resistere alle lotte interne ed all’attività repressiva posta in essere dalle istituzioni dello Stato; sanno che la ‘ndrangheta vive del consenso dei soggetti che di quel mondo criminale fanno parte o che di quel mondo sono al servizio per esserne la consapevole, e quindi colpevole, cintura di protezione; così come sanno di poter contare sulla rassegnata acquiescenza di gran parte di una comunità soggiogata allo strapotere mafioso. I capi sanno che la ‘ndrangheta non può diventare un’entità astratta per continuare a prosperare, ma deve ancorarsi ad un volto che sia al passo con i tempi e che si faccia carico di un ruolo riconoscibile e raggiungibile attraverso passaggi e contatti non oscuri, a cui rivolgere domande e da cui ottenere risposte. Chi meglio del figlio di Paolo De Stefano può incarnare il volto della ‘ndrangheta reggina, garantito, da una parte, dall’appoggio di un alleato storico quale Pasquale Libri che ha la statura per svolgere il medesimo ruolo del fratello e garantire il legame con un passato di pace a tutti gradito e, dall’altra, dall’approvazione di Pasquale Condello, “il Supremo”, simbolo di una forza militare dirompente che serve a fornire autorevolezza all’organo di vertice, ma serve soprattutto a comunicare alla società civile ed ai soggetti imprenditoriali un messaggio essenziale: la stagione delle guerre è finita, la ‘ndrangheta tende ad essere unita ed a rafforzarsi all’interno e verso l’esterno pretendendo la sua parte in ogni attività economica”.
Alla luce dell’analisi del gip, il memoriale del pentito Nino Fiume diventa importantissimo per la Procura distrettuale per dimostrare i cambiamenti della ‘ndrangheta reggina.
“Chi è Giuseppe De Stefano, qual è il suo potere” è il titolo dato al suo memoriale dal collaboratore all’indomani della cattura del pericoloso latitante nel dicembre del 2008 quando Fiume ha appreso la notizia dalla tv: “Era sereno e con la mano mandava baci a qualcuno, inoltre al tg è stata detta questa frase: “Esponente facente parte dell’elite della ‘ndrangheta”. Mi ha fatto pensare a tante cose, a come avrebbe reagito l’opinione pubblica reggina, specie quella che ha conosciuto Giuseppe De Stefano sotto altri aspetti”.
Il pentito descrive, in quelle 28 pagine, come è iniziata la sua storia criminale. Una storia che gli ha consentito di vivere la famiglia mafiosa dei De Stefano dal di dentro. Nino Fiume, infatti, era il fidanzato della sorella del boss. “Mi sono avvicinato ancor di più ai fratelli Carmine e Giuseppe De Stefano dopo la morte del padre (e cioè nel 1985) e per più di un mese ho dormito a casa loro, ma a quei tempi non ero solo io a frequentare quella casa, c’erano tanti giovani della Reggio – Bene, giovani che poi hanno preso altre vie, altre strade, chi è andato a vivere all’Estero, chi si è laureato e ha cambiato città, chi pian piano, giorno per giorno, si allontanò senza più farsi rivedere se non alla fine della guerra di mafia. Io invece rimasi lì nonostante mi trovassi in difficoltà per cercare di mantenere l’amicizia (e buoni rapporti) con molti giovani su citati che pian piano si allontanarono all’inizio della guerra, tranne qualcuno e anche se c’era una differenza di età fra me e i fratelli Carmine e Giuseppe De Stefano, in altri tempi frequentavamo le stesse comitive fra le vecchie e le nuove generazioni”.
E qui Fiume fa i nomi e i cognomi della Reggio-bene distinguendo le vecchie dalle nuove generazioni, i ragazzi dalle ragazze delle comitive. I pm annotano e vanno avanti. Durante la guerra di mafia, quei giovani “rischiavano di morire in quanto si era innescato (o meglio si stava innescando) un meccanismo di fare cerchio nuovo, cioè di fare terra bruciata attorno alle persone che erano a conoscenza di cose che compromettevano l’incolumità e la reggenza di una cosca”.
Il collaboratore ha stilato una minuziosa lista di persone che erano state scritte nel “libro nero” dei De Stefano. Persone che dovevano essere eliminate o fatte sparire perché colpevoli di uno “sgarro”, o semplicemente perché su di loro i fratelli De Stefano nutrivano forti sospetti. Tra questi, stando sempre al racconto di Fiume, c’erano anche poliziotti, guardie penitenziarie e giovani di Reggio che frequentavano lo stesso gruppo De Stefano.
Brutte storie sulle quali indaga la Procura Distrettuale di Reggio. “Storie tristi e orripilanti” le definisce Nino Fiume che, dopo aver descritto le tensioni tra i fratelli Giuseppe e Carmine De Stefano e lo zio Orazio, conclude il suo memoriale con una riflessione: “i fatti reali sono sempre più grossi di quelli raccontati e alcuni ‘ndranghetisti citati in questi appunti a volte restano troppo inferiori rispetto ai nuovi ‘ndranghetisti che via via si formano, nel mentre che si lotta per riuscire a bloccare la loro formazione”.
di Lucio Musolino
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