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mercoledì 5 gennaio 2011

Nel labirinto degli dei. Vie di uscita dalla mafia

di Gian Carlo Caselli - 5 gennaio 2011
Più di un secolo fa, nel suo saggio “Che cosa è la mafia” Gaetano Mosca scriveva: “È strano notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa”. Un vecchio vizio, tutto italiano, che per fortuna contempla eccezioni.


Tra queste gli scritti di Antonio Ingroia, magistrato della Procura di Palermo che ha consolidato sul campo un patrimonio di esperienze utilissimo a tutti coloro che di mafia vogliano sapere qualcosa di più serio rispetto a certe fiction televisive. L’ultima fatica di Ingroia (preziosa come le precedenti) si intitola “Nel labirinto degli dèi” (Il Saggiatore, pagg. 181, 15 euro). E’ un libro di ricordi personali che si intrecciano con riflessioni su mafia e antimafia. Storie di vita “per esercitare la memoria: uno strumento diventato inutile nel mondo dell’eterno presente televisivo”. Un viaggio che incrocia “vite e volti di veri uomini di valore e di finti uomini di rispetto, di tanti mafiosi e di tantissimi siciliani”. Siciliani “che si sentono perfetti, come fossero dèi” (così nel “Gattopardo”). Ed è proprio il “labirinto degli dèi” che questo libro vuol percorrere: per cercare “una via d’uscita”.

Falcone e Borsellino

nel_labirinto_degli_dei_web.jpg Ovviamente campeggiano, tra i “veri uomini di valore”, le figure di Falcone e Borsellino. Dalla inarrivabile sapienza del primo Ingroia ha attinto (quand’era uditore, cioè apprendista magistrato) i “fondamentali” della professione di inquirente. Del secondo, una volta assunte le funzioni, è stato sostituto presso la Procura di Marsala fin quando chiese di essere trasferito alla Procura di Palermo, praticamente in contemporanea con Borsellino (purtroppo pochi mesi prima della strage di via d’Amelio che ne troncò la vita). Borsellino: un uomo “di destra” che si auto canzonava “quando si accorgeva di andare fin troppo spesso d’accordo con persone di sinistra”; - un magistrato capace come pochi altri di riavvicinare “lo Stato alla gente comune conquistandone la fiducia”; - una persona che “amava la vita”; - che anche quando – dopo la scomparsa di Falcone – sentiva la minaccia della morte, lottava per cambiare le cose, senza alcuna rassegnazione; -non quel “santo-martire” di una iconografia fuorviante, magari interessata ad erigere monumenti alle vittime per restituire un qualche onore alla comunità, facendo salva la possibilità di continuare quasi come prima.

Sono tutti assai avvincenti i capitoli del libro ed è perciò difficile segnalare questo piuttosto che quello. Certamente imperdibili sono le pagine (da “Il fatto quotidiano” già illustrate nel numero del 16.11.10) che rievocano l’esame a Palazzo Chigi del Presidente Berlusconi nel contesto del processo Dell‘Utri: un racconto vivace ed “istruttivo”, nonostante che il “teste-assistito” si sia avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del PM, finalizzate tra l’altro a “chiarire i tanti misteri, gli apparenti ‘buchi neri’ nelle origini del suo impero finanziario, le risultate opacità di taluni flussi di denaro in contanti in entrata nelle casse del gruppo Fininvest”. La vita “blindata” di un magistrato antimafia è ricostruita con distaccato realismo, alternando il rude incombere di mitra e autoblindo, trincee “casalinghe” complete di sacchetti di sabbia e cani antimafia, con il ricordo tenero dei momenti in cui i figli si sforzavano di vivere come un “grande gioco” il rapporto con la scorta che in realtà impediva loro “una vita normale col padre”. Ai “pentiti” Ingroia dedica pagine di estremo interesse, specie nella classificazione/periodizzazione di essi: dai “precursori” a quelli di seconda e terza generazione (questi ultimi “figli della legge bavaglio” del 2001, “traguardo della campagna di denigrazione contro i collaboratori di giustizia”).

I pentiti: il ruolo di Buscetta

Tra i "precursori" un posto di assoluto rilievo assume Tommaso Buscetta: aneddoti sapidi (spesso inediti) fanno da sfondo all’analisi di una personalità a suo modo affascinante, sempre attenta “alle dinamiche del processo” e “alla resa processuale delle sue deposizioni”. Di qui la sua scelta – negli anni ’80 – di “tacere davanti a Falcone alcune verità di cui era in possesso, soprattutto sul versante dei rapporti mafia-politica e mafia-istituzioni”, e la diversa scelta di superare ogni remora dopo le stragi del ‘92, convinto che finalmente “lo Stato italiano ce l’avrebbe fatta a riscattarsi” (ma poi costretto, “insieme a tanti altri”, a ricredersi: posto che fin quando aveva parlato “solo” di mafiosi e di killer era stato rispettato da tutti, ma non appena aveva alzato il sipario sulle complicità tra mafia e politica, ecco scatenarsi contro di lui “la ben sperimentata campagna politico-mediatica di denigrazione”). Di fase in fase si arriva all’oggi: a Vincenzo Scarantino (probabilmente un “falso pentito”); - a Gaspare Spatuzza (per il quale sorge “il dubbio” – e sarebbe interesse di tutti fugarlo – che gli si voglia in qualche modo far pagare il fatto di “aver accusato certi personaggi”; - a Massimo Ciancimino, protagonista di una vicenda giudiziaria “tutt’altro che conclusa e che attende altre verifiche”, inestricabilmente intrecciata con quella del padre, sul quale Ingroia esprime valutazioni giustamente spietate; - per concludere con l’elenco delle troppe “sparizioni” di agende, appunti e documenti che fanno da contrappunto alla “cosiddetta ‘trattativa’ che si sarebbe sviluppata tra Stato e mafia a cavallo delle stragi del 1992”. Prezioso è il capitolo “Amicizie e tradimenti”. Soprattutto nella parte che ricorda (ciò che i giovani neppure sanno, mentre i “vecchi” tendono ormai a dimenticarlo) come Falcone – un mito, ma solo post mortem - nel “palazzo dei veleni”di Palermo fosse accusato di essere “un accentratore, un egocentrico esibizionista, un malato di protagonismo” , preparando così il terreno al “Giuda” denunziato da Borsellino come colui che “gli aveva fatto credere che lo avrebbe sostenuto al CSM per la nomina a capo dell’ufficio istruzione, al posto di Antonino Caponnetto”. E ancora nella parte in cui Ingroia (con schiettezza ma con inevitabile personale tormento) rievoca la vicenda di un suo strettissimo collaboratore rivelatosi poi gravemente infedele: con pesanti ricadute, spesso diffamatorie, professionali ed umane, sullo stesso Ingroia. Sofferta è anche la narrazione del tragico suicidio del magistrato sardo Luigi Lombardini, avvenuto subito dopo un interrogatorio nel corso del quale “di fronte al moltiplicarsi degli elementi a suo carico, che gli venivano prospettati per la prima volta”, probabilmente si era reso conto, “da magistrato, di quanto fosse compro-messa la sua posizione”. Una vicenda terribile, sulla quale, pensando “di aver trovato la grande occasione per ‘fottere’ la Procura di Palermo, in tanti si avventarono come avvoltoi”: senza immaginare che la losca manovra era destinata a fallire di fronte alla registrazione dell’interrogatorio, che ne provava “in modo inconfutabile l’assoluta regolarità, serenità e correttezza”.

Una battaglia non ancora vinta

Il bilancio di Ingroia è presto detto: c’è una “struttura gerarchico- militare di Cosa nostra che ha subito negli ultimi anni colpi durissimi; tuttavia la mafia non è vinta, perché la mafia è anche altro”. C’è anche una mafia dei “salotti buoni”, un “sistema criminale”, una “rete di relazioni, scambi e complicità” , una “osmosi tra organizzazione criminale e potere legale” (il famigerato “concorso esterno”…). Caratteri distintivi della mafia “nella sua storia plurisecolare”, che hanno “garantito impunità e favorito, nel tempo, il ricambio dei quadri”. E che oggi sono “il volto pulito con cui la mafia prevalentemente si presenta”, continuando “indisturbata ad infettare il sistema economico politico dell’intiero Paese”. Anche perché non sempre si vuole davvero combattere “tutta” la mafia. E c’è da chiedersi, con Ingroia, se ciò avvenga “per cattiva conoscenza, per cattiva volontà, o per complicità”. Certo è che valgono oggi più che mai le parole che si leggono nel diario di Rita Atria (la “picciridda” cui Ingroia dedica parole tanto tristi quanto commoventi): “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

Tratto da:
Il Fatto Quotidiano

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