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lunedì 21 febbraio 2011

Storie di Cosa nostra, gamberoni e linguine all'aragosta. Con la paura di una nuova guerra di mafia

di Pietro Orsatti - 21 febbraio 2011L’uomo non è un mafioso. Ma sa cos’è la mafia. La conosce, la respira.
    Dal giorno che è nato. Questione di quartiere, famiglia, lavoro. È una precisa matrice culturale a renderlo “sperto”. Non una connotazione antropologica. Ma con la mafia accanto c’è  cresciuto. Conosce linguaggio, poteri, modi, persone e territori. E lo ha stampato in faccia.
Sa perfettamente chi sono io, che lavoro faccio e perché sono a Palermo. E sa che so di lui. Da dove viene. Uomo d’affari, senza legami con “quella” Palermo. Ma con gli occhi aperti e i piedi saldamente a terra. Tutto chiaro e esplicito fra noi. Non c’è da ribadirlo. È evidente e basta.
Vento e pioggia davanti al mare. E vino rosso forte che forse non potrei permettermi di bere. Ma è qui, a un niente da Capaci, che le parole scivolano via fra una portata e l’altra. E il vino aiuta anche a sedare la tentazione di tirare fuori il blocco degli appunti. Per quello ci sarà tempo. Poi. “È cambiato tutto e non è cambiato nulla. Non ci stanno, ora, morti per strada ma non significa che non ce ne saranno”. Una pausa e un sorriso appena accennato. “Assaggi il crudo (riferendosi al pesce). Ormai è una rarità”. Rispondo che è buonissimo, ed è la verità, e poi chiedo che cosa intenda dire con quel “non significa”.
Mi guarda per qualche secondo, poi lo sguardo torna al piatto e inizia a parlare. “A Palermo in questi ultimi anni c’è chi ha fatto fortuna. Dopo gli arresti. Quelli del 2006 prima e poi quelli del 2008. Gente che ha preso in mano gli affari, anche se ci sono meno soldi. Gente che ha trovato la via spianata. Sempre gli stessi, certo, ma con una faccia nuova. Quasi pulita”. In che senso una faccia nuova?  ”Prendiamo prima i Graviano che sono in ‘carzere’ e Brancaccio che ha sempre pesato e tanto. Qualcuno sta seguendo gli affari per loro e ha anche allargato il giro. Ma allargato di tanto”. E poi? “E poi Porta Nuova. Dopo che si è ammazzato Lo Presti. Che aveva detto minchiate sul suo rapporto con Riina, sul via libera che aveva avuto dal capo. Ma questo lo sa anche lei e avrà capito come e perché ci si ammazza in quel modo. Dico, uno come Lo Presti, non uno qualunque. Ti ammazzi così soltanto se sei solo o isolato. Oppure per garanzia della tua famiglia. Ti ammazzi perché nessuno tocchi i tuoi cari”. Un’altra conferma su quello che ho sempre pensato dell’episodio più drammatico dell’operazione Perseo del dicembre 2008 con il suicidio di Gaetano Lo Presti in camera di sicurezza poche ore dopo il suo arresto. E ora?  Anche lì un vuoto e gente nuova? “Diciamo di si”.
La chiave di lettura che sta cercando di fornirmi il mio ospite in qualche modo corrisponde a alcune “voci qualificate” raccolte nei giorni scorsi. Indicando con precisione due mandamenti di peso come Brancaccio e Porta Nuova le informazioni che avevo, ad esempio su via Calatafimi, la scacchiera palermitana sembra ricomporsi. Uno scenario inedito per questi anni. E potenzialmente molto pericoloso. Dove vecchi e nuovi poteri si ritrovano pericolosamente uno accanto all’altro. Vicini e in concorrenza.
Il ristorante è quasi vuoto e il nostro tavolo è di lato, lontano da orecchie indiscrete. Terzo antipasto e un altro bicchiere di vino. Anche il nome del locale è comparso più volte nei miei appunti e in vari atti giudiziari. E il mio ospite qui è di casa. Cliente di riguardo e come tale accolto dal padrone. Mentre aspetto che il cameriere si allontani e l’uomo davanti a me ricominci a parlare mi viene da pensare come “picciotti” che per anni si sono incontrati qui non si siano fatti mancare nulla. Il livello è altissimo, nel cibo, nel vino e nel servizio. Prendo fiato e ricomincio.
E allora. Prima gente nuova che da Brancaccio si è un po’ allargata, poi chi comanda a Porta Nuova dopo la morte di Lopresti. Mi sembra poco assai per il potenziale livello di conoscenza di chi mi sta davanti. E quindi decido di premere un po’ sull’acceleratore. E quelli che tengono in mano gli affari per i Lo Piccolo che a Palermo tentarono di farlo il salto davvero? “E che sono stati presi a Terrasini – risponde il mio interlocutore -, fuori dal loro territorio, e dopo che si erano scornati con chi ‘comannava’ da Altofonte fino a Borgetto e Partinico”. Parla di Raccuglia? “Mimmo Raccuglia era potente, molto più di quanto si pensasse, ma non abbastanza per guardare a Palermo. Forse ci ha provato pure, ma era abbastanza intelligente per non forzare. Ma ai Lo Piccolo lo ha mandato forte e chiaro il messaggio”. Raccuglia è uomo di Riina o Provenzano? “Secondo me di Riina, ma molto furbo. Furbo assai”. Furbo abbastanza da non mettersi di mezzo agli “americani” che stanno rientrando negli ultimi anni? Annuisce appena. È compiaciuto e capisco che l’argomento lo interessa. Attendo. “Guardi, le spiego una cosa. Gli “americani” non hanno, secondo me, mollato mai gli affari qui in Sicilia. In qualche modo le famiglie di Palermo hanno sempre tenuto una porta aperta”. Non sta parlando del cosiddetto governo “Provenzano”. Della mafia sommersa. Parla di prima. Della guerra di mafia, della mattanza. Fin dal pentimento di Buscetta? “Buscetta non era un pentito nel senso che si vuole dare oggi al termine. Come anche Contorno. Buscetta non hai mai tradito Cosa nostra. Diceva che era Riina ad aver tradito. La differenza sembra solo formale, ma si ricordi sempre che qui in Sicilia a volte anche un piccolo dettaglio formale può assumere enorme importanza”. Mi viene un dubbio. Lei lo ha mai incontrato a Buscetta? “Si, quando ero picciriddo e facevo il camdriere in un locale”. Solo lui? “No”.
Capisco che non devo insistere, perché questo dettaglio che mi ha fornito il mio ospite su un ricordo di quando ragazzino faceva il cameriere ricollega la sua storia  personale con alcuni ambienti che non da ora vuole tenere distanti da sé e dalla sua famiglia. Annuisco e poi  dedico tutta la mia attenzione a dei tagliolini all’aragosta che ricorderò per decenni.
Dopo qualche minuto riprende. “Guardi, le dico questo così mi capisce. Messina Denaro pesa. Ma non qui, non a Palermo”. Se è ancora in Sicilia, dico io. “Bravo, Matteo non è un fesso”. E quindi? “Molti di quelli arrestati anni fa stanno uscendo dal carcere. Molti. E chiederanno la loro parte. Già la chiedono. Alle facce nuove, a chi ha comandato finora. Non è difficile immaginare che se non troveranno un accordo e velocemente ci scapperà qualche ammazzatina”. Una nuova guerra di mafia? “Forse niente di così drammatico. Diciamo qualche ammazzatina di assestamento? Non è improbabile. Ma i soldi sono pochi per tutti. Perfino per loro”. Ride, ma l’espressione è comunque preoccupata. “La crisi colpisce pure a loro. E con il nord in mano ai calabresi e con gli stranieri che premono sarà difficile trasferire gli affari fuori”. Ma lei ha qualche dato concreto? “Si, il buon senso”. E mi versa ancora un po’ di vino.
E fuori Palermo? “A Corleone ‘comanna’ ancora Riina. Non militarmente, ovviamente. È il prestiggio suo e di donna Ninetta a pesare”. La moglie, Ninetta Bagarella? “Le racconto un episodio che mi hanno riferito recentemente. Ninetta va a comprare vestiti e maglioni e biancheria per i figli e il marito in uno dei più prestigiosi negozi di Palermo. Da sempre. Cliente di riguardo. Il proprietario a un certo punto ha iniziato a ricevere visite. Senza girarci intorno, richieste di pizzo. Lui per un po’ ha pagato, ma le richieste aumentavano. Sempre più soldi e sempre più frequentemente. Un giorno la signora scende da Corleone per fare acquisti e il proprietario del negozio, che iniziava ad essere davvero preoccupato, le accenna del problema. E quando dico accenna dico proprio che sfiora appena l’argomento. Lei lo guarda e dice solo ‘va bene’. Non una parola di più. Da quel giorno il commerciante non ha più ricevuto richieste o visite. Come se non fosse mai avvenuto”. Chiaro. E dove invece comandava Raccuglia fino allo scorso anno? Le sembra credibile la voce che nessuno, in particolare a Partinico, ci vuole mettere mano? Né quelli che rappresentano gli interessi dei Lo Piccolo né Messina Denaro? “Ci credo. Nessuno vuole avere a che fare con i Fardazza (il soprannome dato alla famiglia Vitale, nda). Lei sa cosa significa “fardazza”? È lo straccio che usa il macellaio per pulirsi le mani. Ecco cos’è la fardazza”. Ma sono tutti dentro, anche i ragazzi. “Tutti no, è uscito Michele e di quello si dice che ha testa fina. Niente omicidi da scontare come i fratelli. E, come dite voi giornalisti, bravo a tenere un profilo basso”. Ride. “Ce la facciamo una sigaretta?”. Non potrei ma gli faccio compagnia.
E fuori dalla porta del ristorante, davanti al mare, continuiamo a parlare. Ma lei che pensa invece di quello che sta succedendo attorno alle stragi? A Ciancimino che parla. E alle dichiarazioni di Spatuzza? “Massimo Ciancimino parla per conto di qualcuno. E più ci penso e più mi sembra che parli per conto di Riina”. Non le sembra un po’ drastico come giudizio? “Ci saranno tanti di quei conti da pagare alla fine, dentro e fuori Cosa nostra… Se va a vedere bene chi più ci guadagna dalle dichiarazioni e dalle contraddizioni di Ciancimino mi sembra Riina”. Anche se apparentemente Ciancimino descrive Riina come un pazzo sanguinario? “Lei pensa che questo importi qualcosa a zi’ Totò? Lui sa che rimarrà in carcere fino al suo ultimo giorno di vita. Ma sa anche che può vendicarsi di chi ha tradito prima e dopo. E badi bene, parlo di chi ha tradito lui e non Cosa nostra”. E ritorna prepotentemente sullo sfondo la figura di Buscetta e degli sconfitti della guerra di mafia.
In molti pensano che anche Gaspare Spatuzza parli per conto dei Graviano. “Probabile. Lui deve tutto ai Graviano. E i due fratelli dopo che ha iniziato a parlare non lo hanno trattato da traditore. Hanno fatto dichiarazioni del tutto incomprensibili per Cosa nostra. In particolare Filippo. Parole perfino affettuose nei confronti di Spatuzza”. Lei ci crede a quello che dice il pentito? “Secondo me dice la verità, Quello che sa”. Anche su Dell’Utri? “Non mi faccia dire anche a me quello che in Sicilia sanno tutti”. E la trattativa? “Spatuzza è un poverazzo. Uno che voleva parlare subito dopo l’arresto e che non lo ha fatto a causa della moglie (questa versione  mi è stata confermata anche da fonti autorevoli, nda). Credo che stia facendo quello che aveva sempre voluto fare. Allegerirsi la coscienza delle cose terribili che gli hanno fatto fare”. E aiutare i Graviano a trattare una via di uscita. La famosa “dissociazione” da Cosa nostra. “Bravo, la vogliamo chiamare trattativa? Non si è mai smesso di trattare. Prima e dopo il ’92″.
Rientriamo dopo la sigaretta, ormai per il sorbetto e il caffé. Gli chiedo, tornando all’inizio della nostra chiaccherata, perché quando parlava delle “facce nuove” che hanno governato gli affari finora sembrasse così preoccupato. “Perché amo questa città, perchè non voglio più assistere a una guerra. Perché ho figli e nipoti, una storia e una vita. E non voglio più rivivere quello che ho già vissuto”. Quindi lei crede che sia possibile che si riapra una guerra di mafia. “Io ne ho terrore”.
L’ultima risposta, anche se drammatica, non mi basta. Mi dica, ma questa nostra chiacchierata di oggi è stata solo teatro? “A Palermo forse la differenza non c’è. Tutto può essere contemporaneamente drammaticamente vero e teatro. La differenza alla fine è solo capire da quale angolo si guardano le cose”.

Tratto da:
gliitaliani.it


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