La loro latitanza, il turarsi il naso per non sentire l'odore del sangue che imbrattava le vie di Palermo, il chiudere gli occhi per non vedere ed in ultimo, non “c'ero perchè dormivo”, hanno rappresentato per il gotha di Cosa nostra, uno stimolo ad andare avanti. Quanti mie amici e colleghi morti ammazzati da Cosa nostra e sepolti nell'indifferenza dei palermitani: troppi!
Le parole che non ho mai detto, nascono dall'intima convinzione che non si può vivere tacendo, che non si può assuefarsi al male endemico che attanaglia la Sicilia, sol perché taluni politici lo vogliono. Ed io, adesso urlo e dico quello che non avevo detto prima.
Durante la mia crescita accompagnavo spesso mio padre a far visita a mafiosi e persino al gran Capo di Cosa nostra. Mio padre, persona integerrima e propugnatore di valori altamente morali, ha contribuito alla mia formazione di ragazzo rispettoso della legalità. Anche se a sua insaputa, io discolo 13enne, gli rubavo la pistola regolarmente detenuta e mi dilettavo a sparare, divenendo un buon tiratore. Se ne è accorto quando ormai era già “grande”.
Dicevo delle “visite” ai mafiosi, dettate da rapporti di lavoro che mio padre intratteneva con loro, mi hanno posto nelle condizioni di memorizzare metodi e gestualità mafiosi. Le esperienze da “picciriddu” mi sono servite per districarmi allorché sbirro, nei meandri irti e omertosi di Cosa nostra.
Una delle mie principali dote era proprio quella di scrutare, analizzare e conseguentemente agire in quei luoghi ove la presenza mafiosa era territorialmente diffusa. In sostanza, potevo andare e venire dai loro santuari, senza destare il benché minimo sospetto: altri miei colleghi non avevano altrettanta fortuna e venivano “sgamati”, riconosciuti . Il segreto era che io “parlavo” la loro lingua e mi muovevo come loro.
Un pomeriggio, il padre di un importante capo “famigghia” di Cosa nostra accompagnato da un mio amico di infanzia, bussò alla porta di casa mia a Palermo. Lo feci accomodare in salotto e dopo aver invitato mia moglie a lasciarci soli, mi disse: “Abbiamo saputo che lei occupa un posto di rilievo alla Mobile e sono qui per chiederle un favore”. Lo guardai col rispetto che si addice ad una persona anziana e risposi che ero pronto ad ascoltare, a condizione che il favore richiestomi fosse lecito e legale. Terminata l'udienza ci salutammo ed io mi riservai di dare una risposta: risposta che concordai insieme a Ninni Cassarà il giorno dopo. La richiesta era legittima e quindi ricevibile.
Vivere, lavorare in un ambiente subdolo come quello di Cosa nostra, non è stato affatto facile, non potevo distrarmi, non potevo dare a mia moglie e ai miei figli, la certezza che avrei fatto ritorno a casa. Ho costretto la mia famiglia, negli anni più buoi della lotta a Cosa nostra, a vivere una vita al di fuori del mondo sociale. Non potevamo avere rapporti amicali se non con i propri consanguinei. Eppure, quella era la mia vita, quella era la Sezione investigativa antimafia di Nini Cassarà e quella era la stessa vita di Giovanni Falcone. Nessuno ci aveva obbligati a far parte di quel mondo, ma era più forte di noi, sentivamo dentro di noi un'impellente necessità di “fare” qualcosa per Palermo. Non cercavamo gratificazioni o una pacca sulla spalla, lo facevamo perché eravamo consapevoli del nostro dovere, come eravamo consapevoli che quello poteva essere l'ultimo giorno della nostra vita.
In me affiorava sempre l'insegnamento della morale e dell'onore di mio padre. Oh! Come gli sono grato per avermi trasmesso siffatti valori che mi permisero di rifiutare tanti soldi, offerti poi da colui che accompagnò a casa mia, l'anziano padre del mafioso. Bastava che mi fossi messo a “disposizione”. Non era in vendita, anzi ho pregato l'offerente di non farsi mai più vedere e così è stato.
E, queste erano le mie credenziali colme di onestà e che uniti alla mia proverbiale riservatezza, venivano apprezzate da Cassarà, che sapeva ogni singolo passaggio della mia vita. Analoghi apprezzamenti di stima mi sono state manifestate da Falcone e in seguito da Borsellino.
Ma nello stesso tempo, altri colleghi remavano contro a questa grande nostra determinazione di contrastare Cosa nostra e non solo loro, anche numerosi politici collusi, ci hanno dimostrato tutta la cattiveria possibile. Se Cosa nostra di Totò Riina è giunta dove tutti sappiamo, la responsabilità è ti taluni politici siciliani e nazionali.
Ben quattro volte sono stato ad un passo da essere assassinato e in due occasioni su segnalazioni di miei “colleghi”. Ma, evidentemente non era giunta la mia ora, giacché minuzie favorevoli non hanno permesso l'agguato.
Oggi, sto dicendo le parole che non ho detto, perché voglio far capire ai giovani che loro non sono il futuro, loro sono il presente ed hanno l'onere di continuare l'opera che fu di Chinnici, Falcone, Borsellino e di tutti i colleghi assassinati da Cosa nostra. Nel mio piccolo ho trasmesso questi valori ai miei figli che hanno scelto la mia stessa professione e li ho esortati ad avere sempre il massimo rispetto verso le persone, anche nei confronti di coloro che si macchiano di gravi delitti.
I miei capelli bianchi testimoniano il percorso di quella che è stata finora la mia vita, e talvolta compio con straziante dolore ma con tanto amore un gesto che racchiude il mio sentimento d'affetto, ovvero pregare inginocchiandomi innanzi alle tombe di Cassarà, Falcone e Borsellino.
Agli uomini di Cosa nostra, con in testa Totò Riina, dico: “ Mi avete impedito di vivere e gioire insieme ai miei migliori amici, ma non siete riusciti a togliermeli dal cuore”. Avete fallito! Miserabili individui che dall'arroganza del potere di togliere la vita ad altri uomini, sarete seppelliti dal vostro stesso male. Eravate, illudendovi d'essere i padroni di Palermo, ora invece siete padroni di una cella ove spero passerete i vostri giorni terreni. E, quando il mio sguardo silente visionava le immagini sul monitor di un uomo che passeggiava in una stanza di due metri per due, nemmeno un commento ha pervaso la mia mente. Indifferenza totale. Quell'uomo era Totò Riina rinchiuso a Pianosa ed io guardavo ma il mio pensiero era rivolto a tutti i miei amici: guardavo con i loro occhi.
Tratto da: 19luglio1992.com
Nessun commento:
Posta un commento