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domenica 27 febbraio 2011

''Provenzano fuori dal carcere? Se fosse vero che e' grave...''



di Antonio Ingroia - 26 febbraio 2011
Periodicamente, a cadenze fisse, volta per volta sotto profili diversi, ma quasi come un tormentone, si ripropone sempre più spesso, quando si parla di mafia e di mafiosi, una questione ricorrente ed evidentemente irrisolta.
Il tema del carcere, della pena più adeguata per un mafioso. A lungo si è dibattuto e si dibatte del “regime duro” di cui all’ormai famoso 41 bis, se sia o meno corrispondente agli standard di umanità della pena indispensabili perché degni di un Paese civile. E, di recente, il tema si è infiammato quando si è scoperto che nel 1993, nel pieno della stagione stragista, il 41 bis venne revocato a centinaia di mafiosi, così avviando un improvviso e, quanto meno, intempestivo allentamento della pressione detentiva perfino su alcuni boss di primo livello. Eterno è, poi, il problema della certezza della pena, che costituisce condizione necessaria per mettere in discussione il mito dell’impunità mafiosa, e che si atteggia diversamente nelle differenti epoche. E ogni volta il dibattito si orienta in modo nuovo, a seconda della contingenza prevalente in un dato momento storico, del caso di volta in volta alla ribalta e dell’emergenza venuta in maggiore evidenza.
Oggi, il caso che ha sollevato l’ennesimo vespaio di polemiche è quello della richiesta del capomafia Bernardo Provenzano, ormai anziano e malato, di uscire dal carcere per ragioni di salute, così come si verifica per gli altri detenuti in analoghe condizioni di salute. C’è chi si oppone dicendo che Provenzano non è affatto un detenuto normale. E a situazioni eccezionali si reagisce con misure eccezionali, sicché ad uno dei principali responsabili della terribile stagione di sangue della mafia corleonese, che ha messo a ferro e fuoco la nostra isola per decenni, non potrebbe mai concedersi alcun allentamento del regime detentivo, e che i benefici penitenziari potrebbero essere concessi solo in presenza di una sua concreta dissociazione dal passato criminale, attraverso una revisione critica che può compiersi attraverso una formale collaborazione con la Giustizia. C’è, dall’altra parte, invece chi sostiene che uno Stato di diritto deve saper essere clemente anche con i peggiori criminali.
Ho, però, la netta impressione che così la questione sia impostata male. Non si tratta di intransigenza o clemenza. Ovvio che neppure al peggiore dei criminali uno Stato di diritto può riservare un trattamento carcerario inumano e ingiusto. Altrettanto ovvio, d’altra parte, che il mafioso è diverso da qualsiasi altro detenuto, per una ragione abbastanza semplice: ha alle spalle un sodalizio criminale che è organizzato in modo tale da sostenere ogni suo membro ovunque, perfino all’interno dell’ambiente carcerario. Ed infatti, il regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis non è la vendetta cieca e brutale dello Stato nei confronti di prigionieri ritenuti criminali particolarmente feroci e quindi meritevoli di una repressione altrettanto feroce. È invece finalizzato ad impedire le comunicazioni fra il mafioso detenuto ed i suoi sodali fuori dal carcere, ad interrompere questo vincolo che rende altrimenti del tutto inefficace la detenzione. A questo scopo si applicano varie misure che tendono a ridurre e controllare le occasioni di comunicazione con l’esterno. Minori sono invece le preclusioni per i contatti dentro il carcere, anche perché la Corte costituzionale ha più volte stabilito che il principio di rieducazione della pena impone di umanizzare la detenzione, sicché deve essere comunque concesso al mafioso di poter socializzare con altri reclusi.
La verità è che il caso delle interrelazioni fra carcere e mafioso mettono in crisi schemi mentali e approcci correnti, al punto che le categorie tradizionali vengono messe sotto tensione. Se il carcere deve puntare alla rieducazione del detenuto questa finalità si scontra con la natura del rapporto fra detenuto e organizzazione mafiosa, sicché viene da dire che l’unico modo di risocializzare del mafioso, paradossalmente, è collaborare con lo Stato.
D’altra parte, è impensabile che un detenuto che sia effettivamente molto malato, con una condizione che risulti incompatibile con la detenzione carceraria, possa essere ancora ristretto nelle patrie galere. Ma che sia questo il caso di Provenzano è, ovviamente, tutto da dimostrare.

Tratto da:
livesicilia.it

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