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sabato 20 novembre 2010

Ecco la sentenza: “Silvio pagava la mafia tramite dell’Utri”

Così il ragionamento dei giudici; ma per Marco Travaglio: “Hanno sbagliato, il processo ora è a rischio in Cassazione”. 

Sul Fatto Quotidiano di oggi, uno fra i tanti giornali che parlano della questione, sono analizzate in maniera più ampia di quanto fosse emerso ieri dai lanci di agenzia le motivazioni della sentenza palermitana a Marcello dell’Utri, senatore del PdL, condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
MAFIA – Con il deposito del ragionamento dei giudici, si possono meglio apprendere i motivi che hanno condotto il collegio giudicante palermitano a mettere una parola (semi)definitiva sulla questione. Anni ‘80, una mafia nel pieno del suo vigore inizia l’autopromozione di sé nel ricco nord d’Italia del secondo boom economico – e questo, per quelli che continuano a dire che la mafia, al nord, non c’è. E’ l’epoca dei rapimenti e dei ricatti di mafia e un certo Silvio Berlusconi, imprenditore del mattone prima e delle televisioni poi, non ha intenzione di trovarsi in mezzo a spiacevoli episodi. E allora paga. Paga tanto, spesso e volentieri agli esponenti di Cosa Nostra per garantire tranquillità per se stesso e per la sua famiglia: Marcello dell’Utri, suo amico siciliano di lunga data, fa da tramite con la criminalità organizzata, in questo modo rendendosi complice dell’associazione criminosa: “Non era ”una sporadica frequentazione con un emergente esponente mafioso: no, Marcello Dell’Utri, scrivono i giudici, ”ricorrendo all’amico Gaetano Cinà ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, ha svolto la contestata attività di “mediazione” operando come specifico canale di collegamento tra l’associazione mafiosa cosa nostra, in persona di Stefano Bontate, all’epoca uno dei suoi più autorevoli esponenti, e Silvio Berlusconi, imprenditore milanese in rapida ascesa economica in quella ricca regione”. E dunque Mangano fu assunto ad Arcore come “stalliere” non tanto per accudire i cavalli ma per garantire l’incolumità di Silvio Berlusconi”, “avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni”. Berlusconi avrebbe pagato “ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari”, racconta Marco Lillo sul Fatto Quotidiano di oggi, riportando le parole della sentenza.
VITTIME DI COSA NOSTRA? – Dunque, Berlusconi una vittima di mafia? Non del tutto: è più complessa la figura del Silvio degli anni ‘80 che la sentenza di Palermo ci racconta. Ecco che i pagamenti ai boss mafiosi non sono inseriti in una cornice di pericolosità percepita, di problematicità, ma sono effettuati quasi a cuor leggero: “”Si ha conferma quindi che almeno in quegli anni ’70 e ’80 – e’ scritto nella sentenza – il Berlusconi, pur di stare tranquillo, preferisse trovare soluzioni accomodanti subendo ed accettando richieste estorsive piuttosto che rifiutarle denunciando i fatti all’Autorità. Emblematica, al riguardo, la telefonata con Dell’Utri del 29 novembre poche ore dopo l’esplosione dell’ordigno collocato sulla recinzione della villa di via Rovani a Milano. Berlusconi, ridendo, riferiva al suo interlocutore il contenuto del colloquio già avuto con i Carabinieri di Monza: “Ah, si? In teoria, se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo!” (ride). Scandalizzatissimi: “Come, trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!”. Dico: “Ma no, su, per trenta milioni!’ “, sono le parole dei giudici di Palermo che ricostruiscono quei giorni.
MAFIA E POLITICA – Insomma, Silvio non si fida delle forze dell’ordine e paga la mafia, senza farsene troppo un problema; e senza farsi troppo un problema neanche del fatto che in questo modo rimpolpava e sosteneva l’associazione criminale più pericolosa d’Italia. Tuttavia, l’impianto accusatorio su Marcello dell’Utri, e quindi su Silvio Berlusconi, finisce qui: e il resto della sentenza potrebbe andare tutto a giovamento del Cavaliere. I giudici infatti si spingono a mettere per iscritto che “non e’ stata acquisita prova certa, nè concretamente apprezzabile, del preteso accordo politico-mafioso stipulato tra cosa nostra e l’imputato Marcello Dell’Utri”. Il che vuol dire che i giudici ritengono l’attività di Dell’Utri dopo il ‘92, e quindi nel periodo in cui la mafia cercava un nuovo referente politico e sperava di trovarlo nella nascente Forza Italia, non fosse collegabile ai movimenti di Cosa Nostra, o che almeno non ci sia prova di un legame organico e progettato: tutti i pentiti che hanno affermato che la mafia si mosse per supportare Forza Italia racconterebbero così di un’adesione spontanea al nuovo partito, e non di un cercato sostegno politico conseguente ad un accordo, in cui tutti ci guadagnano qualcosa.
VALUTAZIONE DELLE PROVE – Conseguenza, questa limitazione della pena, alla non considerazione da parte della corte delle testimonianze più recenti, quelle di Gaspare Spatuzza sui boss Graviano: i giudici, infatti, smettono di considerare una condotta criminosa provata “a partire dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sul celebre incontro al bar Doney con il boss Giuseppe Graviano, euforico perché aveva “il paese nella mani grazie a Berlusconi e Dell’Utri”. Per la Corte “il preteso contributo di Spatuzza, pur preceduto da una rilevante attesa anche mediatica, si è connotato invece conclusivamente per la sua assai limitata, se non del tutto insussistente, consistenza oltre che per la manifesta genericità”. Secondo la Corte di Appello, Spatuzza ha parlato troppo tardi di quell’incontro e i riferimenti a Dell’Utri e Berlusconi sono poco credibili perché giunti in ritardo. In pratica la paura di dire tutto subito, che è già costata lo status di collaboratore di giustizia a Gaspare Spatuzza, invece di rappresentare un riscontro della credibilità delle affermazioni rese (che nessun vantaggio hanno comportato per il collaboratore) rende poco credibili le dichiarazioni tardive. Al pentito che ha sempre affermato di avere atteso un anno per raccontare quello che sapeva sui politici per paura delle conseguenze negative sulla sua sorte (poi puntualmente verificatesi) la Corte ribatte a brutto muso: “Ne consegue che, se le dichiarazioni differenti rese in dibattimento alla Corte devono ritenersi comunque utilizzabili, il giudizio sull’attendibilità intrinseca dello Spatuzza, con riferimento a quanto dallo stesso affermato sui fatti ritenuti di rilievo nel presente giudizio, non può che essere negativo”. Non solo: “la Corte smonta anche la prova regina della mediazione di Dell’Utri nei rapporti tra mafia e Berlusconi nella fase della discesa in campo: gli appunti sugli incontri con lo stalliere di Arcore, Vittorio Mangano. Secondo il Tribunale nel suo interrogatorio era stato lo stesso Dell’Utri ad ammettere quegli incontri con Mangano a Milano, proprio nella fase in cui i mafiosi cercavano conferme e impegni dalla nascente formazione politica. Per la Corte di appello invece “emerge dunque con assoluta ed incontestabile chiarezza dall’esame del verbale di interrogatorio che Marcello Dell’Utri non ha affatto ammesso di avere avuto con Vittorio Mangano quei due incontri del 2 e del 30 novembre 1993 che invece la sentenza appellata ha ritenuto essersi verificati sia sulla base di una interpretazione delle annotazioni sul brogliaccio della segretaria che deve ritenersi del tutto errata”. Per sostenere questa tesi, i giudici arrivano a sostenere che in uno dei due appunti era indicato solo il cognome. E dunque poteva trattarsi di un altro Mangano, presente anche lui sulle agende di Dell’Utri: Roberto, non Vittorio”, dicono i giudici a Palermo.
UN PROCESSO A RISCHIO – E’ proprio questa ardita interpretazione delle prove testimoniali di metà del processo a mettere in allarme l’editorialista del Fatto, Marco Travaglio, che non condivide affatto le conclusioni della corte, e anzi, parla di un processo a serissimo rischio in Corte di Cassazione che, dovendo valutare la logicità del ragionamento della Corte d’Appello, potrebbe non condividere questa scarsa valutazione delle suddette prove testimoniali costringendo il processo d’appello a ripetersi, con annullamento della sentenza e rinvio al secondo giudice: “Le motivazioni del taglio netto al ‘92 aprono ampi spazi per un ricorso in Cassazione: i giudici fanno i salti mortali per salvare il Berlusconi politico dalle contiguità mafiose, negando addirittura l’evidenza delle prove documentali (come gli incontri con Mangano nel novembre ’93 registrati nelle agende di Dell’Utri primo e da lui stesso ammessi) e liquidando frettolosamente le testimonianze di Spatuzza e Ciancimino”, scrive oggi il montanelliano nel suo editoriale. Secondo Travaglio quella dei giudici di Palermo è così una sentenza “discutibile e minimalista”.

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