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lunedì 14 marzo 2011

S. Borsellino: ''Torneranno le bombe''



di Umberto Lucentini - 14 marzo 2011
"In Italia, ogni volta che un sistema di potere è arrivato alla dissoluzione, sono arrivate le stragi. E come nei primi anni '90, i primi obiettivi oggi sono i giudici". Le dure accuse del fratello del Pm ucciso 19 anni fa Salvatore Borsellino «In questi giorni si susseguono in tutta Italia manifestazioni di ogni tipo e di varia ispirazione. Sembra che finalmente la coscienza civile della gente si sia svegliata».
C'è ottimismo nelle parole di Salvatore Borsellino, ingegnere ad Arese, fratello di Paolo, il procuratore aggiunto di Palermo ucciso nella strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992, ispiratore del movimento delle "Agende Rosse".


L'ingegner Borsellino gira ormai da anni l'Italia per non fare calare il silenzio sulla strage del fratello e sui moventi ancora oscuri che l'hanno provocata, 57 giorni dopo quella costata la vita a Giovanni Falcone, a Francesca Morvillo e ai poliziotti della scorta. Borsellino parte proprio dall'agenda rossa che il fratello magistrato aveva con sé il giorno della strage e che è sparita dalla borsa 24 ore rimasta intatta nell'auto blindata in via D'Amelio.


Sono giorni caldi, e le Agende Rosse erano in piazza per difendere la Costituzione. Cosa sta accadendo di nuovo in Italia, ingegner Borsellino?
«In tanti si rendano conto che se si vuole che veramente le cose cambino e che si arresti questo continuo sprofondare all'interno di un baratro del quale sembra sempre di essere arrivati al fondo, per accorgersi poi che il fondo sta ancora più in basso, bisogna mettersi in gioco in prima persona. Il movimento delle Agende Rosse ha già aderito e continuerà ad aderire a tutte le manifestazioni e le iniziative che non siano politicamente caratterizzate in modo univoco e monopolizzate da un particolare schieramento o da un determinato partito ma che siano espressione delle forze ancora sane di questo paese e del loro desiderio di cambiamento. Scenderemo in campo ogni volta che si dovrà difendere lo spirito della nostra Costituzione, l'indipendenza della magistratura, l'unità del nostro paese, la nostra lotta sarà sempre alimentata dalla nostra rabbia e rivolta alla ricerca della giustizia e della verità».

Il presidente dell'Anm di Palermo, Nino Di Matteo, ha dichiarato in un'intervista all'Espresso on line: "In questi ultimi anni e oggi si assiste ad una offensiva unilaterale, senza precedenti, violenta e sistematica di una parte consistente della politica contro la magistratura". Cosa ne pensa?

«Gli ultimi 15 anni della vita del nostro paese sono stati caratterizzati, da parte del Presidente del Consiglio e del partito che lo sostiene con la connivenza degli alleati che gli hanno assicurato la permanenza al potere, da pervicaci, vergognosi e plateali attacchi alla magistratura e alla sua indipendenza dagli altri poteri dello Stato sancita dalla Costituzione, con un evidente intento punitivo nei confronti della Magistratura stessa e di singoli magistrati. Non sono bastate le innumerevoli "leggi ad personam", l'intento è quello di assoggettare la magistratura al potere politico, di metterla in condizioni di non nuocere, di assicurare l'impunità ai corrotti di impedire il ripetersi di quella stagione di Mani Pulite che disgregò un'intera classe dirigente e che ora potrebbe ripetersi sotto il dilagare degli scandali che stanno sommergendo la vita pubblica del nostro paese. Quella stagione fu possibile grazie all'indipendenza della magistratura ed è quella indipendenza che oggi si punta ad eliminare. Eliminando anche, ove non bastasse, le armi indispensabili alla magistratura e alle forze dell'ordine per potere condurre le proprie indagini: a questo tendono la legge sulle intercettazioni, lo stravolgimento della legge sui collaboratori di giustizia, la sottrazione alla magistratura del controllo della polizia giudiziaria, l'abolizione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, e tutto quanto abbiamo appreso essere contenuto in una riforma definita dal suo ispiratore "epocale". Che di epocale ha soltanto il nascere, ove venisse attuata, di un'epoca di impunità totale per l'impossibilità da parte dei magistrati di fare il proprio lavoro».

Il caso Ruby e la fissazione dell'udienza col rito immediato a Milano a carico di Silvio Berlusconi, ha fatto tornare d'attualità la – per la verità mai tralasciata – questione della riforma della giustizia. La sorprende?

«Non mi sorprende perché, come ho detto prima, non di riforma della Giustizia si tratta ma dell'ennesimo, e stavolta definitivo attacco nelle speranze di chi lo ha sferrato, all'indipendenza della magistratura. Dove non si è potuto arrivare con la sequela di leggi "ad personam" spesso dichiarate poi anticostituzionale da una Consulta soggetta per questo anche essa a violenti attacchi finora solo verbali, si tenta di arrivare con la "soluzione finale" anche se questo comporta lo stravolgimento dell'impianto della nostra Costituzione che ha come principio portante l'indipendenza dei poteri dello Stato. Il potere legislativo era stato già praticamente eliminato, dato che le leggi non si fanno più in Parlamento; il potere giudiziario viene imbavagliato e asservito; resta, non più soggetto ad alcun limite e controllo, se non quello residuo del Capo dello Stato anche esso oggetto ad attacchi non solo verbali, il potere esecutivo che si riassume nel potere di un solo uomo».

Da magistrati impegnati in indagini antimafia arriva il solito avvertimento al governo: non modificate la legge sulle intercettazioni nel senso finora indicato perché le inchieste contro le cosche ne verrebbero danneggiate...«Non importa - a chi ha ideato e sostiene questa legge sulle intercettazioni - il fatto che le indagini sulle cosche verrebbero danneggiate. Importa, ed è ridicolo che venga sbandierata a questo proposito l'esigenza della privacy, che non si possano più individuare e perseguire, grazie ai vincoli che ne renderanno inefficace se non impossibile l'uso, i reati di quei politici che magari con i rappresentanti di quelle cosche trattano concessioni di appalti o altri tipi di affari. Una delle caratteristiche della criminalità organizzata è stata infatti da sempre quella di avere bisogno del potere per potere condurre i propri affari, la corruzione delle'amministrazione pubblica è infatti uno dei canali principali di arricchimento di questo particolare tipo di criminalità».

Lei ripete sempre più spesso che i magistrati antimafia sono sempre più a rischio attentati. Allarme o allarmismo?«Basta guardare la storia del nostro paese: ogni volta che un sistema di potere è arrivato alla sua dissoluzione, ogni volta che si è passati da un equilibrio politico ad un altro il passaggio non è stato indolore ma è stato caratterizzato sempre di stragi e sono state sempre "stragi di Stato". A me sembra di vivere oggi in uno scenario troppo simile a quello dei primi anni '90: un sistema politico si sta dissolvendo, annegando nel suo stesso fango, ci sono magistrati che possono dare fastidio, perché stanno facendo luce su "vecchie storie", perché, come dice Antonio Ingroia, "sono arrivati nell'anticamera della verità". Altri giudici sono stati già fermati senza bisogno di stragi, di sangue, ma con avocazione di inchieste, trasferimenti e delegittimazioni. Ma questi metodi potrebbero non bastare più per fermare questi altri magistrati, potrebbe essere necessario per fermarli eliminarli anche fisicamente. E allora potrebbe essere messa in conto l' inevitabile reazione dell'opinione pubblica, la necessaria, anche se condotta parallelamente ad una "trattativa" come quella posta in atto negli anni Novanta, reazione dello Stato. E allora potremmo avere altri magistrati sì "eroi" ma anche morti. E quindi non più in condizioni di nuocere".

Che quadro viene fuori dalle indagini sulle trattative tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia del '92-'93?«Il quadro che viene fuori è quello di uno Stato che, nel momento in cui avrebbe la sua migliore occasione per sconfiggere definitivamente quel cancro che lo ha sempre divorato, la mafia, nel momento in cui ha ottenuto, grazie al pool di Palermo la più grande vittoria nei confronti di questa, nel momento in cui grazie alla reazione dell'opinione pubblica dopo la strage di Capaci potrebbe dare all'antistato la spallata definitiva, sceglie invece di trattare con l'antistato andando presso i suoi rappresentanti con il cappello in mani, e quel cappello è purtroppo un cappello di carabiniere. Oggi, nel nostro paese qualcuno ha ancora le cambiali firmate per concludere quel patto scellerato e i punti contenuti in quel vero e proprio diktat che era costituito dal "papello" diventano leggi del nostro parlamento. Quello che è peggio è il gran numero di componenti delle nostre istituzioni che di quella trattativa erano al corrente e che solo ora, a distanza di venti anni, solo perché di questa trattativa ha cominciato a parlare un mafioso pentito ed il figlio di un mafioso, cominciano, a poco a poco, a fare riaffiorare i propri ricordi. Forse per evitare di doverlo fare, per la prima volta, davanti a un magistrato».


La mafia non si infiltra solo in Sicilia, questo ormai lo sanno pure le pietre. Ma dire che le cosche cercano oppure ottengono contatti politici al nord provoca polemiche...«Evidentemente certi comportamenti, l'omertà, le collusioni, non erano soltanto nel Dna di noi siciliani. Alla mafia in Sicilia si soggiaceva, qui al nord con la mafia, anzi con quella 'ndrangheta che ormai ha colonizzato la Lombardia, si fanno affari. Il sindaco di Milano, il Prefetto, dicono che la 'ndrangheta a Milano non c'è. E quando il giorno dopo vengono, nell'operazione Infinito, assicurati alla Giustizia trecento ndranghetisti, non sentono neanche il bisogno di chiedere scusa ai cittadini. E i cittadini del nord non hanno quegli anticorpi che avevamo noi siciliani perché vedevamo con i nostri occhi cosa era la mafia, erano anche quei morti ammazzati che vedevamo per strada. Qui al Nord la gente continua a credere che se non ci sono i morti ammazzati non c'è la mafia. E intanto il tumore si espande e forse è già entrato in metastasi, non è più operabile».

Il figlio di Bernardo Provenzano accusa: lo Stato non cura mio padre malato...
«Ho sentito altre volte queste parole: parlavano dell'ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada in carcere e ormai prossimo alla morte. Senza la reazione mia e di mia sorella Rita, che telefonò direttamente al Presidente della Repubblica, stavano per concedergli la grazia. Poi gli fu concesso di scontare il residuo della sua pena agli arresti domiciliari, a Napoli, ma pretese di andare a Palermo, tanto, dissero, stava per morire. Ora abita a trecento metri dalla casa di mia sorella maggiore, passa gli ultimi anni della sua vita insieme a sua moglie, nella sua città. E la storia si ripete per Provenzano: il figlio pretende che gli sia concesso di curarsi a casa propria, come se in carcere non ci fossero medici capaci di curare in problema alla prostata. Devono forse permettergli di andare ancora una volta a curarsi a Marsiglia come quando era latitante, Come quando andava tranquillamente a trovare Vito Ciancimino agli arresti domiciliari nella sua casa vicino a piazza di Spagna, a Roma. Magari accompagnato dal Sig. Carlo o dal Sig. Franco. Mi accusino pure di non avere carità cristiana, di coltivare i sentimenti dell'odio e della vendetta, ma io accetterò che Provenzano e Riina escano dalla prigione soltanto se faranno anche uscire mio fratello Paolo dalla sua bara».

Umberto Lucentini


Fonte: L'Espresso

Tratto da:
19luglio1992.com

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