Dal 1999 il messaggio dei cari appare puntualmente ogni 30 novembre sulle pagine del Giornale di Sicilia. E' il ricordo al patriarca di Cosa nostra belicinese, padre del boss e numero uno nella lista dei latitanti, Matteo Messina Denaro
Non è solo l’omaggio e il ricordo dedicato al “caro” estinto. E’ chiaro che serve a “dire” altro il necrologio che puntualmente ogni 30 novembre, dal 1999, compare sulle pagine del Giornale di Sicilia, dedicato a Francesco Messina Denaro, il “patriarca” della mafia belicina, il cui erede, il boss Matteo Messina Denaro, 48 anni, ricercato dal 1993 è da più parti indicato come il numero uno della mafia siciliana, dunque, degno di lignaggio malavitoso. L’ultimo necrologio, apparso il 30 novembre 2010, è semplice. Le date a indicare l’anniversario della morte, 12°, il nome Francesco Messina Denaro posto al centro in grassetto, identico ai caratteri degli altri necrologi, in basso a destra scritto piccolo uno stringato “I tuoi cari”.
Non sono più i tempi del ricordo fatto usando il latino e le frasi del vangelo. Adesso, anche a casa del capo mafia belicino, è consigliata la “sobrietà”. In passato, proprio i necrologi dedicati a Messina Denaro hanno fin troppo dato nell’occhio. Attirando l’attenzione degli inquirenti. Ma all’appuntamento con la memoria la famiglia Messina Denaro non vuole assolutamente mancare, per dire che c’è ed è presente. Che le indagini e gli arresti non hanno fatto cambiare nulla, il rispetto garantito al vecchio capo mafia e capo famiglia deceduto, e il rispetto che resta preteso da tutti gli altri, c’è poi la “cortina” che circonda l’inavvicinabile famiglia Messina Denaro, provate a passare per la via Alberto Mario di Castelvetrano, vedrete sempre un’auto con un paio di tizi a bordo ferma a poca distanza dalla casa dove vive la vedova Lorenza Santangelo, quasi a garantirne “protezione”.
Per la seconda volta dal 1999 quest’anno niente più versi del Vangelo o citazioni in latino, ma un sintetico omaggio. Era il 30 novembre del 1998 quando il corpo senza vita del capo mafia Francesco Messina Denaro, settantenne latitante, venne fatto trovare nelle campagne di Castelvetrano. Deceduto di morte naturale lo stesso giorno in cui la Polizia arresta il figlio Salvatore, considerato un insospettabile dipendente di una succursale della Banca di Sicilia. Da allora quella morte e quel morto sono serviti per alzare il livello di sfida nei confronti dello Stato. Matteo Messina Denaro nei suoi pizzini scrive di essere come il Benjamin Malaussène, capro espiatorio di “professione”, personaggio dello scrittore francese Pennac, ma così la pensa l’intera famiglia Messina Denaro. La vedova, Lorenza Santangelo quando arrivò nel luogo dove fu fatto trovare il corpo del marito, lo coprì con un cappotto di astrakan. Pronunciando parole precise: “Unnarrinisceru a pigghiariti”, non sono riusciti (i poliziotti) a prenderti vivo, l’aria di sfida che ha continuato a mantenere nei confronti di chi oggi dà la “caccia” al figlio Matteo, il super latitante, l’ultimo dei “corleonesi”.
I precedenti necrologi sono stati più articolati, “Ti vogliamo bene, sei sempre nei nostri cuori”, oppure il ricorso al latitno e al Vangelo, “Spatium est ad nascendum et spatiumest ad morendum sed solum volat qui idvolt et perpetuo sublimis tuus volatusfuit”, “È tempo di nascere ed è tempo di morire ma vola soltanto colui che vuole e il tuo volo è stato per sempre sublime”. Un approfondimento di questo testo ha portato a capire che il “volare” si riferisce al “morire”, insomma “muore solo colui che lo vuole”, e per i suoi congiunti Francesco Messina Denaro è come se ci fosse ancora. Prima c’erano stati altri necrologi, in uno compariva anche la firma di Matteo, in un altro ancora si citava un passaggio preso dal “Vangelo di Matteo”, scelta non casuale, nei suoi ultimi pizzini il super boss Matteo parla quasi di un suo “vangelo”, sostenendo di essere nel giusto e gli altri lo perseguitano, i suoi “complici” gli danno ragione e lo adorano, non lo hanno mai “tradito”, vivendo con lui in una sorta di estasi.
Chiesa e mafia. I primi giorni di latitanza Francesco Messina Denaro in compagnia del figlio Matteo, raccontano i pentiti, li trascorse in una sacrestia di Calatafimi, guardando dalla finestra la sfilata della festa di maggio dedicata al Santissimo Crocifisso. E un altro prete oggi farebbe da “confessore” al giovane Matteo, lo scrive lo stesso boss in uno dei pizzini finito tra le mani di quel Svetonio, nome dato da Messina Denaro a Tonino Vaccarino l’ex sindaco che con lui tenne corrispondenza per volere del Sisde. Matteo parla di un prete che in una occasione lo avrebbe riconosciuto, e gli si è offerto di aiutarlo.
Un altro sacerdote, quello che celebrò i funerali del patriarca mafioso, all’interno del cimitero di Castelvetrano,lo ha pubblicamente assolto: per il sacerdote, “la vicenda umana la conosce solo Dio, gli uomini non possono giudicarla”. E ancora oggi c’è chi nei confronti dei Messina Denaro la pensa a questa maniera, come è emerso dalle più recenti operazioni antimafia Golem, quelle che hanno scompaginato la schiera dei favoreggiatori. Nelle carte giudiziarie c’è scritto ben altro sulle colpe dei Messina Denaro, ci sono scritte anche le parole del giovane capo della mafia siciliana che con i suoi complici si vantava che lui da solo aveva fatto tanti omicidi da riempire un cimitero. Il Dio dei mafiosi e dei loro complici non può essere lo stesso di quello delle vittime. Oggi non sappiamo se il cerchio si è davvero stretto, conosciamo una realtà che quell’area grigia che nel trapanese ha garantito, e garantisce protezione al latitante, spesso sfruttando la defaiance di uno Stato che ogni tanto si perde nei meandri di strategie inutili e dilatorie, non si sa mai quanto apposta.
di Rino Giacalone
Non sono più i tempi del ricordo fatto usando il latino e le frasi del vangelo. Adesso, anche a casa del capo mafia belicino, è consigliata la “sobrietà”. In passato, proprio i necrologi dedicati a Messina Denaro hanno fin troppo dato nell’occhio. Attirando l’attenzione degli inquirenti. Ma all’appuntamento con la memoria la famiglia Messina Denaro non vuole assolutamente mancare, per dire che c’è ed è presente. Che le indagini e gli arresti non hanno fatto cambiare nulla, il rispetto garantito al vecchio capo mafia e capo famiglia deceduto, e il rispetto che resta preteso da tutti gli altri, c’è poi la “cortina” che circonda l’inavvicinabile famiglia Messina Denaro, provate a passare per la via Alberto Mario di Castelvetrano, vedrete sempre un’auto con un paio di tizi a bordo ferma a poca distanza dalla casa dove vive la vedova Lorenza Santangelo, quasi a garantirne “protezione”.
Per la seconda volta dal 1999 quest’anno niente più versi del Vangelo o citazioni in latino, ma un sintetico omaggio. Era il 30 novembre del 1998 quando il corpo senza vita del capo mafia Francesco Messina Denaro, settantenne latitante, venne fatto trovare nelle campagne di Castelvetrano. Deceduto di morte naturale lo stesso giorno in cui la Polizia arresta il figlio Salvatore, considerato un insospettabile dipendente di una succursale della Banca di Sicilia. Da allora quella morte e quel morto sono serviti per alzare il livello di sfida nei confronti dello Stato. Matteo Messina Denaro nei suoi pizzini scrive di essere come il Benjamin Malaussène, capro espiatorio di “professione”, personaggio dello scrittore francese Pennac, ma così la pensa l’intera famiglia Messina Denaro. La vedova, Lorenza Santangelo quando arrivò nel luogo dove fu fatto trovare il corpo del marito, lo coprì con un cappotto di astrakan. Pronunciando parole precise: “Unnarrinisceru a pigghiariti”, non sono riusciti (i poliziotti) a prenderti vivo, l’aria di sfida che ha continuato a mantenere nei confronti di chi oggi dà la “caccia” al figlio Matteo, il super latitante, l’ultimo dei “corleonesi”.
I precedenti necrologi sono stati più articolati, “Ti vogliamo bene, sei sempre nei nostri cuori”, oppure il ricorso al latitno e al Vangelo, “Spatium est ad nascendum et spatiumest ad morendum sed solum volat qui idvolt et perpetuo sublimis tuus volatusfuit”, “È tempo di nascere ed è tempo di morire ma vola soltanto colui che vuole e il tuo volo è stato per sempre sublime”. Un approfondimento di questo testo ha portato a capire che il “volare” si riferisce al “morire”, insomma “muore solo colui che lo vuole”, e per i suoi congiunti Francesco Messina Denaro è come se ci fosse ancora. Prima c’erano stati altri necrologi, in uno compariva anche la firma di Matteo, in un altro ancora si citava un passaggio preso dal “Vangelo di Matteo”, scelta non casuale, nei suoi ultimi pizzini il super boss Matteo parla quasi di un suo “vangelo”, sostenendo di essere nel giusto e gli altri lo perseguitano, i suoi “complici” gli danno ragione e lo adorano, non lo hanno mai “tradito”, vivendo con lui in una sorta di estasi.
Chiesa e mafia. I primi giorni di latitanza Francesco Messina Denaro in compagnia del figlio Matteo, raccontano i pentiti, li trascorse in una sacrestia di Calatafimi, guardando dalla finestra la sfilata della festa di maggio dedicata al Santissimo Crocifisso. E un altro prete oggi farebbe da “confessore” al giovane Matteo, lo scrive lo stesso boss in uno dei pizzini finito tra le mani di quel Svetonio, nome dato da Messina Denaro a Tonino Vaccarino l’ex sindaco che con lui tenne corrispondenza per volere del Sisde. Matteo parla di un prete che in una occasione lo avrebbe riconosciuto, e gli si è offerto di aiutarlo.
Un altro sacerdote, quello che celebrò i funerali del patriarca mafioso, all’interno del cimitero di Castelvetrano,lo ha pubblicamente assolto: per il sacerdote, “la vicenda umana la conosce solo Dio, gli uomini non possono giudicarla”. E ancora oggi c’è chi nei confronti dei Messina Denaro la pensa a questa maniera, come è emerso dalle più recenti operazioni antimafia Golem, quelle che hanno scompaginato la schiera dei favoreggiatori. Nelle carte giudiziarie c’è scritto ben altro sulle colpe dei Messina Denaro, ci sono scritte anche le parole del giovane capo della mafia siciliana che con i suoi complici si vantava che lui da solo aveva fatto tanti omicidi da riempire un cimitero. Il Dio dei mafiosi e dei loro complici non può essere lo stesso di quello delle vittime. Oggi non sappiamo se il cerchio si è davvero stretto, conosciamo una realtà che quell’area grigia che nel trapanese ha garantito, e garantisce protezione al latitante, spesso sfruttando la defaiance di uno Stato che ogni tanto si perde nei meandri di strategie inutili e dilatorie, non si sa mai quanto apposta.
di Rino Giacalone
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